MASSIMO COTTO

IT’S ONLY ROCK’N’ROLL BUT I LIKE IT
TESTO DI MAURIZIO FERRARI – FOTO DI GIOVANNI MECATI

«Una parola è morta quando vien detta, dicono alcuni. Io dico che comincia a vivere soltanto allora». Questa citazione di Emily Dickinson racchiude tutto il mondo di Massimo Cotto: conduttore radiofonico, scrittore, giornalista, appassionato di musica e tifoso del Torino. Lui con la parola si è innamorato del suo futuro: promettente giocatore di basket, o pallacanestro per usare una parola italiana, ascoltando alla radio un conduttore che gioca con le parole di una canzone di Bruce Springsteen ha una folgorazione, la sua epifania del futuro. «Ho deciso in quel momento – ha spiegato Massimo Cotto – di voler lavorare in radio. Sono andato alla radio di Asti, Radio Asti Doc, e poi ho fatto un concorso in Rai, prima Torino e poi Roma dove ho iniziato a condurre StereoNotte. All’epoca la Siae non pagava i diritti d’autore dopo le 9 e questo permetteva ai deejay di poter spaziare, liberi da vincoli, e proporre brani che altrimenti non avrebbero trovato spazio nella normale programmazione». Massimo Cotto è un fiume in piena mentre si racconta. L’abbiamo incontrato nella sua casa di Asti, luogo frutto di un compromesso matrimoniale tra il suo “disordine” e l’ordine di Chiara Buratti, la moglie attrice e conduttrice televisiva. Durante la sua carriera, Cotto, ha portato a casa oggetti da tutto il mondo.

UNA BASE DI ARMOCROMIA E UNA CAPACITÀ DI OSSERVARE E “SENTIRE LE FORME” SONO INDISPENSABILI, C’È LA TECNICA MA ANCHE L’ISTINTO E LA PERCEZIONE.

Ha fatto fare quadri a molti artisti che ha incontrato, altri li ha acquistati, come il trittico dei chitarristi di Ron Wood dei Rolling Stone, altri gli sono stati donati, come gli esperimenti di computer grafica di Leonard Cohen. Lo studio, in un locale poco distante da casa, è il suo santa sanctorum, il luogo dove è circondato da ricordi raccolti durante una vita passata tra la musica e i musicisti. Cotto ha avuto la fortuna di vivere a livello professionale in un periodo dove le cose erano più semplici, i contatti più diretti. Trasformare un artista da voce a persona in carne e ossa era meno difficile di quanto si possa immaginare. «Era un’epoca diversa – ha raccontato Cotto –, se dovevi intervistare i Pearl Jam andavi a Seattle per quattro giorni, con Robert Plant andavi tre giorni a casa sua. Si creavano situazioni incredibili. Stavo facendo un libro di traduzioni di canzoni di Leonard Cohen, chiamai la casa discografica e questa mi diede il numero di casa di Cohen. Rispose lui, per me fu una sorpresa, chiesi se potevo mandargli un fax con i miei dubbi sulla traduzione, ma Cohen mi stupì ancora invitandomi a Los Angeles per una settimana così da fare il lavoro assieme. È nata quasi subito la possibilità di incontrare le più grandi rockstar internazionali e gli artisti italiani. Se con questi ultimi si superava la diffidenza si diventava anche amici. Nella mia carriera ho scritto oltre 70 libri.

L’ultimo con Ligabue è stato meraviglioso, perché lui ha chiamato me. Scrivere un libro con un artista è molto difficile, perché devi spingerlo a dire cose che normalmente non direbbe, ma al tempo stesso capire quando fermarti. Renga è stato il mio testimone di nozze ed è l’unico libro che non ho mai pubblicato. Dopo averlo scritto lui lo ha letto e ha detto “Tu sei matto, io non posso pubblicare queste cose” e così è rimasto nel cassetto». Dalle sue parole emerge una differenza tra gli artisti italiani e quelli stranieri. Questi se vogliono essere intervistati hanno un forte rispetto per la stampa, gli italiani sono più restii a lasciarsi andare, sollevano sempre delle questioni e non vogliono rispondere a domande che li potrebbero mettere in difficoltà. Questa differenza è ben chiara nelle storie che racconta: «Eric Clapton – ha continuato Cotto – mi ha tenuto a parlare per ore della sua odissea con la droga, Joe Cocker pure. Elton John mi ha detto una cosa che mi rimarrà sempre dentro: quando attraversava i suoi momenti difficili e abusava delle droghe l’unica cosa che gli dava la forza per andare avanti era mettere sul piatto un disco di Peter Gabriel e Kate Bush, Don’t Give Up, e piangere sino a finire le lacrime e allora capiva che avrebbe potuto farcela. È vero che c’è un potere salvifico nella musica. Robert Plant, adorabile quando lo si incontra, dice che le interviste non hanno una durata, ma finiscono quando è il momento che finiscano. Quando ho intervistato Alda Merini nella sua casa ai Navigli la persona che mi ha accompagnato mi raccontò l’aneddoto di una giornalista di New York che è andata per cinque giorni a casa della poetessa per intervistarla. Questa apriva la porta, non sentiva le giuste vibrazioni e le diceva di tornare il giorno dopo. È ritornata negli Usa senza averla intervistata». «Oggi – ha puntualizzato – è però molto cambiato il giornalismo. Sempre più vicino al gossip che all’approfondimento. Anche la musica è cambiata, soprattutto in Italia. Un tempo il Rock era il veicolo primario per esprimersi, per dare la propria visione del mondo, a meno che non si volesse navigare le placide acque del Pop. Ma se uno aveva un senso di ribellione finiva per fare Rock.

Oggi assistiamo a una frammentazione di stili: quando un adolescente vuole esprimere il suo non riconoscersi nel mondo circostante può scegliere la Trap, il Rap, l’Hip-Hop, il R’n’B, il Rock, il Pop. Qui entrano in gioco anche le case discografiche che un tempo lavoravano pensando alla carriera, oggi invece lavorano pensando al disco. Questo rende difficile impostare un lavoro per il lungo periodo, De Gregori, per esempio, ha avuto successo dopo il quarto album. Oggi nessuno può permettersi di aspettare tanto. Oggi continua a esserci della musica bella e di qualità, ma i giovani stentano di vivere di musica». Il viaggio nell’esperienza, nella vita di Massimo Cotto potrebbe, come diceva Plant, proseguire per molto altro tempo ancora. Basta una parola per dar vita a un nuovo discorso, estrarre un nuovo aneddoto, scatenare un ricordo. Il conduttore, scrittore, di Asti è una persona molto particolare, capace di rapire l’attenzione e far viaggiare con lui lungo la sua personale scaletta. È come se fossimo sotto un palco e lui accende i riflettori su personaggi, momenti, miscelando il tutto con il suo sorriso che attraverso la radio non si può vedere, ma avviluppa in modo contagioso. Lasciare il mondo di Cotto non è facile, perché le domande senza risposta sono ancora molte. Le parole hanno preso vita e ci accompagnano nel viaggio di ritorno. Long live Rock.