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PIETRO SCALIA

L’UOMO DIETRO LE QUINTE
Testo di Elisabetta Riva – Foto di Giovanni Mecati, Archivio

Ci fa sorridere utilizzare l’espressione “in pillole” per riassumere – per chi non la conoscesse – la lunga carriera di Pietro Scalia, ma proviamo davvero a condensare le informazioni essenziali.

Pietro nasce a Catania il 17 marzo 1960. All’età di un anno si trasferisce insieme alla famiglia in Svizzera, dove compie gli studi primari e secondari. Nel 1978 si reca negli Stati Uniti per studiare cinema: dopo due anni alla State University of New York di Albany, segue i corsi di regia e produzione alla University of California di Los Angeles, ottenendo nel 1985 il master in Film and Theatre Arts.

Riconosciuto come uno dei più importanti montatori cinematografici mondiali, ha esordito nel cinema come assistente al montaggio di Andrej
Michalkov Končalovskij. Affascinato dal cinema di Stone, è entrato nel suo team di post-produzione, lavorando così come assistente di Claire Simpson in Wall Street e di David Brenner e Hutshing in Talk radio e ha affiancato gli ultimi due anche come montatore aggiunto di Born on the fourth of July (Nato il quattro luglio) e The Doors. È diventato capo montatore con JFK di Oliver Stone insieme a Joe Hutshing.

Attivo nel cinema statunitense, ha contaminato i tempi del montaggio cinematografico con i ritmi visivi e sonori di altre scritture contemporanee (videoclip, news, digitale), valorizzando la naturalezza della recitazione degli attori e portando nel
suo mestiere uno sguardo più consapevole e vicino all’ottica della regia. Formatosi – come detto – nel gruppo di lavoro di Oliver Stone, ha collaborato in seguito soprattutto con Ridley Scott e Bernardo Bertolucci.

La sua carriera è costellata di premi: giovanissimo, ha ottenuto due Oscar, il primo nel 1992 per JFK (JFK‒Un caso ancora aperto) di Oliver
Stone e il secondo nel 2002 per Black hawk down di Ridley Scott, oltre a due nomination, una nel 1998 per Good Will Hunting (Will Hunting-Genio
ribelle) di Gus Van Sant e l’altra nel 2001 per Gladiator (Il gladiatore), ancora di Ridley Scott. Ha inoltre vinto due volte il BAFTA Award – il British Academy Film Awards, uno spettacolo annuale per la consegna dei premi omonimi presieduto dalla British Academy of Film and Television Arts
(BAFTA). Essi vengono spesso citati come l’equivalente britannico dei premi Oscar – e tre volte l’Eddie Awards, premio assegnato dall’American
Cinema Editors, che dal 1951 celebra il meglio del montaggio cinematografico e televisivo. The ACE Eddies è uno degli spettacoli di premiazione più longevi nel settore dell’intrattenimento e gli Eddies sono considerati un barometro per le categorie Miglior film e Miglior montaggio dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences.

Avevamo preannunciato che sarebbe stato complicato offrire quello che è solo un compendio dei tanti lavori svolti da Scalia, ma pensiamo di avergli reso merito citando, se non i suoi preferiti, di certo i lavori più importanti da lui svolti. Se gli si chiede qual è il suo film preferito, Pietro, uomo dai modi affabili e dal sorriso aperto e gentile, risponde che è come chiedere a un genitore quale figlio prediliga: Mission
Impossible! (Se ve lo state chiedendo, ebbene, no: stranamente, non è lui l’editor di questo film). Abbiamo incontrato Pietro Scalia a Modena, dove si trova da luglio del 2022 per lavorare al film dedicato alla vita personale e professionale di Enzo Ferrari diretto dal regista Michael Mann e con protagonisti Penelope Cruz e Adam Driver (oltre a Shailene Woodley nel ruolo di Lina Lardi, l’amante del patron del Cavallino Rampante e madre del suo secondo figlio, Piero, e Patrick Dempsey, appassionato di auto nei panni del pilota Piero Taruffi). Una brigata di serie A per la
pellicola del maestro de L’ultimo dei Mohicani: oltre a Pietro Scalia, il premio Oscar Erik Messerschmidt è il direttore della fotografia, la nominata all’Oscar Maria Djurkovic è la scenografa, il due volte candidato all’Oscar Massimo Cantini Parrini è il costumista.
Abbiamo conversato con Pietro sul suo mestiere di editor, un lavoro estremamente complicato, ma altrettanto affascinante: per chiunque sia stato su un set cinematografico è difficile credere che soltanto un uomo o una donna facciano un film. A volte il set sembra un alveare, o una scena di vita quotidiana alla corte di Luigi XIV, in cui sono all’opera tutte le classi e tutti i mestieri. Per il pubblico, invece, c’è sempre e soltanto un Re sole, cui viene accreditata la responsabilità della storia, lo stile, il design, la tensione drammatica, il gusto e perfino le condizioni meteorologiche del film finito, quando questo è, invece, ovviamente, il frutto del lavoro di molte professioni specializzate. Abbiamo avuto il privilegio,
quindi, di poter conoscere l’arte e l’atto del filmare attraverso la lente di uno degli artefici essenziali di un film, il montatore appunto, il cui contributo viene spesso sottostimato: la gente del mestiere conosce il suo ruolo cruciale, ma al di fuori della cerchia degli addetti quella del montatore è una (meravigliosa) arte sconosciuta e misteriosa. E così grandi nomi come Dede Allen, Cécile Decugis, Michael Kan, Thelma Schoonmaker, Walter Murch e Margaret Booth sono ancora quasi sconosciuti al pubblico.

A questo proposito, la nostra curiosità ci ha spinto a scoprire che si trova in commercio, ma solo nel marketplace più
famoso a livello mondiale, un vecchio libro di Dai Vaughan su Stewart MacAllister, brillante montatore di documentari inglesi durante il secondo conflitto mondiale. Si intitola, molto appropriatamente, Portrait of an Invisible Man: The Working Life of Stewart McAllister, Film Editor (Ritratto di un uomo invisibile) e quello che dichiarava l’autore all’inizio è valido ancora oggi, nel terzo millennio: «L’assenza di una bibliografia su McAllister non è interamente attribuibile a indifferenza, incuria o cattiva volontà. Anche coloro che volevano analizzare il suo lavoro si trovarono in qualche modo impossibilitati a farlo. Non c’era alcuna tradizione cui attingere, nessun corpus di regole codificate: nessun modo di parlare dei film che consentisse di menzionare il lavoro del montatore». Le ragioni sono molteplici, ma Vaughan mette a fuoco forse la causa essenziale: «Ogni dibattito sull’argomento, sulle riviste specializzate, alle riunioni sindacali, sulle colonne di gossip o al bar si fonda su un presupposto che, anche quando non è reso esplicito o viene esplicitamente ripudiato, riconduce a sé l’attenzione: l’idea cioè dell’Artista come creatore solitario».
Chiacchierando amabilmente tra una tigella, un borlengo e un calice di Lambrusco – vino di cui Scalia in poco tempo è divenuto un vero esperto – abbiamo avuto modo di capire a fondo l’importanza del suo mestiere e se ve ne parliamo con una certa enfasi non è perché l’ “uomo Scalia” ci è veramente molto simpatico (ne apprezziamo, in particolare, la grande curiosità, dote che condividiamo), ma perché c’è bisogno di
riequilibrare la bilancia: nessuno si sognerebbe mai di sminuire l’importanza del regista, ma anche Napoleone aveva
bisogno dei suoi marescialli. Concludiamo con una piccola nota di colore: durante la sua permanenza a Modena, Pietro ha avuto modo di conoscere persone, tradizioni, eccellenze del territorio. Si è innamorato, in particolare, della storia dell’Aceto Balsamico
Tradizionale di Spilamberto, che gli è stata raccontata dalla viva voce di uno dei testimoni della fondazione della Consorteria
dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Spilamberto, il cui primo “Gran Maestro” fu Rolando Simonini. Fu Simonini a volere che l’ “oro nero” – prodotto per secoli imprigionato nelle soffitte di tante famiglie spilambertesi, in particolare di nobili e facoltosi, a loro esclusivo appannaggio – venisse conosciuto da tanti personaggi, anche molto illustri. Egli stesso raccontava con molto orgoglio di essere riuscito, per vie amichevoli e diplomatiche, a recapitare le originali boccette in seguito disegnate da Giorgetto Giugiaro a importanti personaggi come il Presidente degli Stati Uniti d’America e il Santo Padre e Mao Tze-tung. Ma questa è un’altra storia e se l’uva filmata da Pietro Scalia è buona, a tempo debito darà i suoi frutti. Come affermava il filosofo stoico Epitteto, «Nessuna cosa grande compare all’improvviso; nemmeno per l’uva o per i fichi è così. Se ora mi dici: “Voglio un fico”, ti rispondo: “Ci vuole tempo”. Lascia, innanzitutto, che vengano i fiori, poi che si sviluppino i frutti e, poi, che maturino».

UNA CURIOSITÀ

Da ragazzo per pagarsi l’università faceva il pizzaiolo. Quando si trasferì a Los Angeles, nella seconda metà degli anni ‘80, il pane non si trovava, i fornai non esistevano e l’unico pane disponibile era quello in cassetta, quello per i toast, così imparò a preparare il pane con la pasta madre.
Da lì in poi non ha più smesso. Impara l’arte e mettila da parte, si dice. Mai proverbio fu più azzeccato. Per Pietro non è mai stata fatica né tempo sprecato quello usato per imparare a fare la pizza o il pane. È molto bello sentirlo raccontare del procedimento che utilizza per la composizione degli ingredienti, la cottura, il tipo di contenitore appropriato e molti altri dettagli che portano a un perfetto risultato. Vi sono molte analogie con il lavoro di Scalia e con la sua straordinaria abilità nello svolgerlo: per l’ars culinaria sono necessarie perizia e precisione, esattamente come lo sono
per il montaggio di un film che, in fondo, altro non è che una perfetta fusione di ingredienti che, se ottimi, possono essere
esaltati nei vari procedimenti successivi. Noi ci siamo divertiti a metterlo alla prova ai “fornelli”: è stato molto buffo vederlo preparare i “borlenghi” a Modena. In pochi minuti ha dimostrato sul campo di sapere il fatto suo!

ENZO FERRARI DI MICHAEL MANN

La sceneggiatura, scritta da Troy Kennedy Martin e basata sul libro di Brock Yates, Enzo Ferrari – L’uomo e la macchina, è un excursus sulla storia di rinascita del Commendatore e il racconto di uno spaccato di storia italiana: siamo nel 1957 e l’ex pilota di auto da corsa Enzo Ferrari è in crisi. Il fallimento perseguita l’azienda che lui e sua moglie, Laura, hanno costruito dal nulla 10 anni prima. Il loro tempestoso matrimonio deve affrontare il lutto per un figlio, Dino, avvenuto l’anno prima e il riconoscimento di un altro nato da una storia d’amore durante la guerra e a quel punto dodicenne. Ferrari decide così di colmare le varie perdite cui la vita l’ha messo di fronte scommettendo tutto su una gara automobilistica che per 1000 miglia avrebbe percorso tutta l’Italia: la leggendaria Mille Miglia. Durante la gara, la vettura di Alfonso de Portago, anche lui alla guida di una Ferrari, provocherà un pauroso incidente. Non vogliamo anticipare altro, ma invitarvi ad andare a vedere di persona – sarà nelle sale nel
2023 – questo biopic che con orgoglio Michael Mann ha girato in Italia e che porta con sé la passione per i personaggi intensi che uniscono le immagini in movimento alla potenza tipica della Ferrari, creando un’esperienza cinematografica epica, ambientata nel rischioso e pericoloso mondo delle corse automobilistiche degli anni Cinquanta.